Il “Conte Rosso” solcava il mare, scortato da varie unità tra cui gli incrociatori Trieste e Bolzano. Varato nel 1921, era stato una grande nave passeggeri di 18.000 tonnellate, ma allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, per la sua notevole velocità di 20 nodi, era stato acquistato dallo Stato Italiano e impiegato per il trasporto di truppe. Aveva per questo perso i suoi bei colori ed era stato riverniciato cupamente di grigio. La sera del 24 Maggio 1941 aveva a bordo 2.482 militari e 247 membri d’equipaggio, inviati a combattere in Africa Settentrionale dal Governo Mussolini. Salpato all’alba dal porto di Napoli, diretto a Tripoli, navigava ad oriente della Sicilia con il suo carico umano, ignaro che un occhio infido lo stava spiando dalla profondità degli abissi, pronto a scagliare i suoi dardi avvelenati contro l’ambita preda. Fra queste truppe c’erano due artiglieri di Paese: Giovanni Pozzebon (1899-1978) e Arturo Birello. Erano da poco passate le otto di sera quando quest’ultimo suggerì al primo di andar sotto coperta per riposare. Giovanni, però, preferì rimanere sul ponte a farsi accarezzare dalla brezza serale come un crocerista. Pensava con nostalgia alla sua numerosa famiglia, lasciata a Sovernigo - la sposa Gioseffa, incinta, e dieci figli - per il bene della quale era partito volontario alla non più giovanissima età di 41 anni, dopo aver già combattuto nella Grande Guerra come Ragazzo del “99. Al crepuscolo di quella sera di primavera il mare era poco mosso, l’ideale per imboscate. L’occhio adunco del cacciatore nemico aveva individuato la sagoma del suo obiettivo in controluce all’orizzonte, rilevandone velocità e rotta. Sparati da oltre mille metri di distanza, due siluri avevano ormai segnato il crudele destino del convoglio, questione di qualche manciata di secondi e avrebbero raggiunto il bersaglio. Poco dopo, infatti, la prima esplosione sollevò un’alta colonna d’acqua che investì il ponte della nave, seguita da un secondo devastante scoppio. Il sommergibile britannico Upholder aveva colpito il “Conte Rosso”, squarciandolo irreparabilmente, tanto che affondò in soli dieci minuti. “Nani”, sbalzato in acqua dall’improvviso inclinamento della nave che affondava con la prua, si trovò aggrappato ad un tavolato, una specie di zattera, con altri sette compagni di sventura, tra cui un graduato. Quel mare che fino a pochi istanti prima gli era sembrato tanto ospitale e gli aveva ispirato sentimenti d’affetto e di speranza, era diventato di colpo ostile e gelido come una bara. Nel buio si udivano angosciate urla d’aiuto e di dolore. Difficile orientarsi anche per i soccorritori, prontamente accorsi dalle navi di scorta, due torpediniere e due caccia, tra l’altro il mare era ancora insidiato da sommergibili nemici che avevano sede a Malta. Per ore gli otto naufraghi cercarono di infondersi coraggio mentre intorno era tutto un brulicare di zattere e di teste, tutta gente in lotta disperata per la vita. L’ufficiale incitava i sottoposti a non lasciarsi andare, a muovere le gambe per non congelare, ma ad uno ad uno persero i sensi e scomparvero tra i flutti. Giovanni si trovò solo, in piena notte, su quel precario approdo, con le forze che si affievolivano. Stava ormai per lasciarsi andare quando fu intercettato da una scialuppa di soccorso, da cui prontamente fu gettata una cima. Stremato, cercò di arrampicarsi, ma ricadde in acqua svenuto. Un marinaio si tuffò a ripescarlo. Si risvegliò nell’ospedale di Augusta, stringeva una sgualcita immaginetta della Madonna, quella stessa che conservava gelosamente in tasca da quando era partito. Quali pensieri l’avessero sostenuto in quell’interminabile tempo fra la vita e la morte lo sapeva solo lui. Avrà pensato alla sua famiglia che stava per rimanere orfana dell’unico sostentamento. Avrà immaginato la sua Gioseffa in lacrime, condannata a cercare ogni giorno il modo per sbarcare il lunario. Chissà quanto avrà pregato, lui così credente. Fatto è che non fece mai mistero che a salvarlo fu la Vergine. Il compaesano Arturo era invece perito con altri 1.296 sfortunati commilitoni. Nani Majèr era uno dei due figli di Andrea (1860-1927) e di Venezian Teresa (1863-1955), figlia di Girolamo-Francesco, originario da Biadene, e di Domenica Severin. L’altro figlio, Giuseppe, maggiore di dodici anni, era sposato a Luigia Modesto. I “Majèri”, questo il soprannome della famiglia Pozzebon (probabilmente da majo-maglio, officina fabbrile), giunsero a Sovernigo, in Via Montello, civico 12, in epoca imprecisata, provenendo da Dosson di Casier, con il capostipite Giovanni, nato intorno al 1820. Lo accompagnava il figlio Andrea, mentre l’altro, Giuseppe, si consolidava nel paese d’origine. A Paese, col tempo, divennero proprietari di otto campi di terra, che lavoravano con altri cinque presi in affitto dalla famiglia Quaglia. Era questa la loro unica risorsa, in stalla una dozzina di vacche e non mancavano certo gli animali da cortile. Andrea e Teresa generarono quattro figli fra il 1884 e il 1902: Luigi Antonio, Guglielmo, Giovanni (“Nani”), con il quale abbiamo iniziato questo racconto, e Francesco. Il primo prese in sposa Virginia Mattarollo di Paese, il secondo emigrò in Australia, Francesco sposò Antonia Severin, dei “Searìni” di Sovernigo. Come si può evidenziare, anche in questa famiglia, ai neonati si attribuiva il nome dei defunti. Giovanni, oltre che fabbriciere della parrocchia, era anche il cassiere della Mutua sul bestiame. La moglie spesso lo sgridava perché mollava lavoro e doveri coniugali per soccorrere gli altri, mentre nella sua casa era padrona assoluta la fame. La loro stalla, nelle sere invernali, era ritrovo di una decina di anziani che discutevano e condividevano con Nani non solo le proprie preoccupazioni ed esigenze, ma anche quelle delle altre famiglie. Era il “Consiglio della solidarietà” di Sovernigo, non istituzionalizzato ma operativo di fatto, che si teneva in compagnia di un bicchiere di vino acquistato in Villa Panizza. Erano tempi di vacche magre per tutti, ma per i Majèri in particolare. Gioseffa spiccava salti mortali per distribuire cibo a tutte quelle bocche. Accadeva spesso che fingesse di dimenticarsi qualche piatto perché non sapeva cosa metterci. Di un uovo faceva quattro parti. Non parliamo dei vestiti e delle calzature, che passavano di figlio in figlio. Si recavano a Messa la domenica a turno per passarsi le scarpe. Tutto ciò non scalfì minimamente, anzi esaltò, l’onestà della famiglia e una volta che Silvio, il figlio maggiore, approfittando del fatto che era guardiano alla stazione di Paese, sottrasse una forma di formaggio dai vagoni tedeschi, l’integerrimo genitore gliela fece prontamente restituire, pur sapendo che era frutto di requisizioni. Il rischio poi era veramente notevole e non poteva permettere che il figlio esponesse la propria vita. Nani Majèr era un personaggio limpido, illustre e carismatico di Paese. Già nel 1945, finita la guerra, il Comitato di Liberazione Nazionale lo aveva chiamato a far parte della prima Giunta comunale post-fascista come membro apartitico, sindaco era Alfredo Cursi e pro-sindaco Quinto Perissinotto. Nella stessa coalizione c’erano: Antonio Mattarollo, Luciano Desidera e Melchiorre Callegari (“Cèo Risso”). Il suo impegno in Consiglio comunale si protrasse per qualche decennio, militando nel Partito Popolare e poi nella Democrazia Cristiana, quand’erano sindaci l’On. Luigi Zanoni e Vittorio Zanatta. In particolare il rapporto tra Nani e Zanoni era caratterizzato dalla condivisione degli stessi ideali e da un unico denominatore comune: l’onestà intellettuale. Tra l’altro erano compari e buoni vicini di casa.