Sartor (“Sartoréti”)

sartoretiLuigi, ma tutti lo chiamavano familiarmente Jijo, si alzava di buon mattino per governare le bestie nella stalla prima di marendàr. Le foraggiava, le mungeva, asportava il letame stendendo poi della paglia fresca. Ma quella mattina tardava a venire in cucina per la colazione e la cosa era abbastanza inconsueta. Da quando gli era morta la moglie era passata una trentina d’anni, ma ancora la nominava spesso; a volte gli sembrava di sentirsela accanto che gli sussurrava: “Jijo, non affaticarti troppo, che ti viene un colpo!”. Luigi era tuttavia allenato al duro sacrificio quotidiano, indole ereditata da suo padre Giuseppe, perciò non sapeva risparmiarsi. Era proprio grazie alla sua inclinazione stacanovista che la famiglia aveva ottenuto un certo progresso in tempi in cui molti prendevano il vapore, affrontando i marosi degli oceani e poi una serie di terribili disagi, per cercare un po’ di fortuna. Quel giorno del 1940 il ritardo di Jijéto, come lo aveva chiamato affettuosamente la moglie, non aveva destato subito allarmismo, ma non vedendolo arrivare, Armida, la nuora, mandò i due figlioletti Mario e Guido a cercarlo. Usciti correndo per quell’inatteso incarico (avevano uno sei anni e l’altro soltanto quattro), dapprima scrutarono l’aia, poi alzarono gli occhi verso il fienile, ma non videro nessuno e non sentirono particolari rumori. “Nonno, nonno…”, chiamarono coralmente, ma risposero soltanto i versi dei ruspanti che beccavano intorno, un po’ seccati per quell’improvvisa intrusione. Raggiunsero quindi di corsa la stalla e lo videro quasi subito, nonostante la penombra. Nonno Luigi era lì, seduto sulla solita sedia impagliata, con la testa reclinata in avanti, sembrava che dormisse. Le braccia penzoloni avevano da poco abbandonato il giornale del giorno avanti che stava leggendo al caldo tepore emanato dalle sue bestie, uniche testimoni della suo fulmineo trapasso. I due bimbi, non abituati a simili infauste esperienze, pensarono per un istante che stesse dormendo, ma si ricredettero presto dato che non dava alcun segno vitale. Se n’era andato senza disturbare. Sul volto sereno aveva una specie di sorriso: il suo ultimo saluto ai suoi. Luigi Sartor, classe 1876, era figlio di Giuseppe (1840-1920) e di Angela Bedin. Il nonno, il precursore dei Sartoréti, si chiamava Angelo ed era il marito di Angela Durigon. A Postioma, oltre ai Sartori, ci sono i Sartor soprannominati “Sartoréti”, nomignolo usato per distinzione da altri ceppi omonimi. Sartor e Sartori, negli atti dell’archivio parrocchiale di Postioma, appaiono promiscuamente nelle registrazioni della stessa famiglia, a conferma di quanto detto sopra. Già nel XVII secolo erano presenti in Postioma: “Adì 18 febraro 1628. Marchioro figlio di Messer Domenico Sartor et di Donna Lucrezia sua moglie, fu da me Pievano battezzato et tenuto al Sacro Fonte da Messer Ludovico del Duca, fratello di me Piovano. Nacque adì 17 detto a hore venti”. Erano gli antenati degli attuali Sartori, e non si può escludere che siano quelli arrivati a Postioma intorno al 1893 provenendo da Falzè di Trevignano, con il soprannome di “Sartoréti”, anche perché un tempo ci si spostava frequentemente dove c’era della terra da lavorare. I Sartoréti, proprietari di sei campi di terra dislocati in varie località di campagna, abitavano a Postioma, in Via Rocca, ai confini con il paese di Signoressa, villici, cioè contadini, a tre chilometri dal centro, in una casa pure di loro proprietà, che aveva il pianoterra con il pavimento in terra battura e ciò riguardava non solo la cucina, ma anche le stanze da letto, una delle quali confinava con la stalla. Altre camere erano al piano superiore, ma si dormiva anche all’interno del granaio con il tetto senza soffitto che da alcune fessure lasciava intravedere le stelle. La stalla era occupata da sei vacche da latte e da tiro, ma i Sartoreti possedevano anche delle pecore e l’asina, oltre ad un nutrito pollaio. Di giorno razzolava libero in cortile un maialino da latte, che di notte veniva chiuso in cucina per timore dei ladri, ma anche per tenerlo al caldo fino allo svezzamento. Ciò che si temeva di più era che si ammalasse, compromettendo il nutrimento futuro della famiglia. Il maiale era infatti un patrimonio per i contadini; un animale comunemente allevato per finire tritato e insaccato nella stagione di San Martino. Di questa bestia non si buttava proprio nulla; tutto era opportunamente sfruttato, persino il pelo, gli ossi e anche le unghie perché ciò che non era commestibile veniva venduto allo straccivendolo per qualche palanca. I fratelli di nonno Luigi erano cinque: Angelo (1869-1934), che si sposò con la compaesana Pasqua Colusso (1873-1941); Rosangela (1872-1916) diventata moglie e mamma sposando Vittorio Borsato (1877), emigrarono in varie località per poi fermarsi stabilmente in Piemonte; Maria (1877) moglie di Angelo Tommasi (1875) da Signoressa; Assunta, probabilmente deceduta prematuramente; e Giovanni (1884-1963), il più giovane, che si congiunse a Giuseppina De Lazzari (1882-1959).

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