“Da ragazzi, per i nostri giochi, scorrazzavamo per i cortili delle case vicine. Sì perché non c'erano recinzioni e, in qualche modo, eravamo figli di tutti e tutti ci volevano bene”. Esordisce così Favillo Barbisan, ricordando la sua fanciullezza. Favillo, classe 1920, da tutti conosciuto come “Berto Binéto” abita tuttora in quella che fu l'abitazione dei suoi avi, a Sovernigo di Paese (Treviso - Italia), in Via Trieste 43. Casa che allunga un braccio anche in Via Asiago (ex Ca' Stretta), e già oggetto di vari rimaneggiamenti. I “Binéti” hanno sempre abitato in Sovernigo, e non è saputo da dove eventualmente provenissero, come non è chiaro il significato di questo nomignolo, né di quello degli omonimi soprannominati “Bìni”. Fatto è che in principio c'erano i nonni Eugenio (1852-1904), figlio di Antonio e di Caterina Zanoni, e Domenica Biscaro (1854-1934) sua moglie, detta “Nina”. Dalla loro unione nacquero nove figli, tra i quali Antonio (1874-1952), detto “Toi cursor” perché era fattorino comunale. Abitava con la moglie Giuseppina in una casetta ai bordi del sagrato della parrocchiale di Paese, alienata nel 1926 per permettere l'ampliamento della chiesa stessa. Quella dei Barbisan era una famiglia patriarcale che, nel 1927, raggiunse le trentasei unità. Lavoravano in tutti una quindicina di campi di terra in qualità di fittavoli delle famiglie Perotto e Balzero. Nonno Eugenio morì nel 1904 a soli cinquantadue anni. Il 7 luglio dello stesso anno una tragica notizia era giunta a scuotere la già travagliata vita di Paese. Mons. Giuseppe Foffano, parroco da venticinque anni, rimase schiacciato in un ascensore a Napoli. Aveva sessantadue anni. Era canonico onorario trevigiano e cameriere secreto di Papa Pio X. “Per volontà del popolo, il suo cadavere maciullato fu trasportato qui ed ebbe gli onori funebri, ove fu tumulato in questo cimitero parrocchiale, accanto agli altri predecessori defunti”. Così si legge nel libro dei morti. Memorabile rimane la causa civile intentata nel 1892 dal Comune di Paese contro mons. Foffano, per una diatriba sul terreno antistante la chiesa parrocchiale. Terra agricola di proprietà in parte del beneficio parrocchiale e parzialmente di Giovanni e Antonio Gobbato. Quest'area di metri 1430,75, di comune accordo fra parrocchia e i Gobbato, era utilizzata come piazza, “per evitare che i fedeli fuori di chiesa fossero costretti a disperdersi nel cimitero circostante”. Il Comune, rappresentato dal sindaco dott. Giuseppe Quaglia, già nel luglio 1883, “usurpando diritti non suoi, autorizzò alcuni villici a trebbiare il grano”. Nonostante le proteste del parroco e della fabbriceria, le molestie non cessarono nemmeno negli anni seguenti, sebbene il Regio Prefetto per ben due volte avesse rigettato il ricorso del Comune. L'ente pubblico anzi intensificò gli sgarbi e le provocazioni, emanando un'ordinanza che imponeva di chiedere al sindaco la licenza per trebbiare su quel sito, “autorizzando anche alcuni mercanti girovaghi a piantare le loro tende, in spregio alla proprietà altrui”. Già nel 1890 il Tribunale di Treviso aveva dato in parte ragione al Comune, ma il successivo ricorso alla Reale Corte d'Appello di Venezia, in nome di S. M. Umberto I, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d'Italia, diede ragione al parroco, ai Gobbato e alla Fabbriceria, rappresentata da Annibale Balzero, Luigi Gabbin e Giovanni Barbisan, condannando il Comune al pagamento di tutte le spese e al risarcimento dei danni, riconoscendo le proprietà reali e sentenziando “non competere ai comunisti (amministratori comunali) di Paese altro diritto che quello di passaggio per accedere alla chiesa”. Per Favillo Barbisan i tempi della sua infanzia furono d'una durezza inaudita, di cui non s'intravedeva l'uscita, nonostante che i “Binéti” gestissero anche una piccola osteria alla quale si accedeva dalla polverosa strada superando due gradini. Nonostante la vita travagliata c'era tanta umanità e, anche se con poca istruzione, si educava dando il buon esempio, valori che erano un patrimonio comune. Verso la Castretta (ora Via Asiago), sulla bianca strada campestre, si giocava a “borèla”, con legni per birilli e sassi per bocce. Si mettevano in palio dei mannelli d'erba, cosicché i vincitori se ne tornavano col sacco pieno e i perdenti dovevano darsi da fare