Andava a piedi attraverso la provincia, con gli inseparabili arnesi sulle spalle tenuti da robuste cinghie di cuoio: Aurelio Biscaro faceva il maniscalco e questo suo mestiere lo portava in giro per la campagna, ovunque ci fossero animali da ferrare. Aurelio (1854-1925), figlio di Carlo e di Caterina Pontel, era originario da San Pelajo di Treviso. A Sovernigo, borgata di Paese (Treviso), era giunto meno che ventenne, giovane ma con una vistosa barba, radicandosi nella casa colonica dell’Opera Pia Ospedale S. Maria dei Battuti di Treviso, in Via Trieste, l’attuale Casa Alloggio per anziani. I “Biscari” erano una famiglia d’agricoltori, quindi, ma anche d’emigranti e di maniscalchi. Sì perché, dopo il capostipite Aurelio, anche i figli Giulio (1893-1976, detto “Barba Julèa”) e Anselmo, quindi il nipote Daniele si tramandarono questo mestiere. Lungo Via Trieste, all’ingresso del cortile, a destra, c’era una casetta adibita ad officina, con il fuoco sempre alimentato da un mantice a mano per soffiare sul carbone ardente. Padroneggiava il locale una grossa incudine posta su un tronco di castagno; sparsi sull’annerito bancone martelli, tenaglie e chiodi di varie lunghezze. Fumo, battito argentino di metalli e un odore sgradevole di zoccoli di animali bruciati si espandevano nell’aria, tanto che la gente di passaggio accelerava il passo. Nell’aia era tutto un viavai di cavalli e di muli portati a ferrare, ma anche di vacche e buoi che erano necessari per i lavori nei campi. Aurelio si era fatto una notevole fama quando, durante la Prima Guerra Mondiale, aveva curato e guarito il cavallo di un capitano degli Alpini a Conegliano Veneto. Da allora tra i due si era instaurato un rapporto privilegiato, tale da indurre Aurelio ad assentarsi da casa anche per parecchi giorni di seguito. Aurelio e Monica Sartori da Porcellengo si erano sposati giovanissimi il 14 Novembre 1870. Dalla loro unione vennero al mondo otto figli, cinque maschi e quattro femmine: Zefirino (1871-1948), Luigi-Maria (1873-1964), Ester-Maria (1876); Domenica-Maria (1878); Giovanna-Maria (1880); Alfonso-Anselmo (1883); Pasqua-Stella (1885); Giulio (1893-1976); e Raimondo-Celeste (1895). Con l’esclusione di Raimondo, morto giovanissimo di malattia contagiosa, i quattro figli maschi vivevano tutti nella stessa casa con le rispettive famiglie. Lavoravano 16 campi di terra dell’Ospedale, in buona parte lungo l’attuale Via Trieste, dopo l’ex trattoria dei Barbisan-“Binéti”, attualmente tutta zona residenziale. Nella stalla tenevano una decina di bestie da latte. Era la tipica famiglia patriarcale di oltre trenta persone, gente rispettata e stimata in tutto il paese. Zefferino, suocero di Carmela Barbisan (1912 - “Bini” di Sovernigo), era sposato con Rachele Visentin (1875), che abitava dirimpetto alla casa dei “Bìscari”. I due, sposatisi nel 1894, ebbero ben dieci figli: Monica-Luigia (1895) che, divenuta religiosa, morì di febbre gialla a Firenze; Carlo-Angelo (1897), Guido (1898); Luigia-Maria (1900); Colomba-Lucia (1904); Daniele (1907); Raimondo-Celeste (1909) detto Mondo; Dorina-Angela (1911); Fortunato-Ferdinando (1914) detto Nano; e Aurelio-Angelo (1917). Ben cinque di questi emigrarono negli U.S.A. e in Canada. Fra il primo e l’ultimo nato c’era un salto di vent’anni. Durante la Prima Guerra Mondiale, Guido, che era partito militare, si trovò a passare davanti a casa, con le truppe che si dirigevano al fronte sul Montello. Era sul primo camion e saltò giù di corsa per vedere il suo ultimo fratellino di appena un mese e salutare la mamma, giusto il tempo necessario per salire sull’ultimo automezzo della colonna e non venire dichiarato disertore. Succedeva anche che chi era emigrato non conoscesse il fratello nato dopo di lui. Situazione che durava anche qualche decennio. Daniele e Carmela si sposarono il 17 aprile 1937. Matrimonio allietato dalla nascita di sei figli, ora tutti con famiglia, nel segno della continuità dei Biscaro. Un tragico episodio, verso la fine dell’ultima guerra, venne a turbare la già provata routine quotidiana quando dei ragazzini, raccolto uno strano oggetto caduto dalla casetta di maniscalco, si misero a manovrarlo per cercare di carpirne i segreti di costruzione, senza però riuscirci. Più intraprendente di loro, il decenne Arduino Baldonero, che abitava di fronte ai Biscari, riuscì ad aprirlo, ma gli esplose fra le mani. Era una bomba-giocattolo che lo mutilò gravemente di una mano e di una gamba. Sanguinante e pieno di schegge in tutto il corpo, lo portarono all’Ospedale di Treviso, dietro Piazza San Leonardo (ora sede dell’Università), dimettendolo con poche speranze di vita. Se ne prese cura Colomba Biscaro, che riuscì a scaldarlo e rianimarlo, salvandogli perlomeno la vita. In quel periodo i Bìscaro conobbero momenti assai tragici poiché in soli dodici giorni ben tre lutti colpirono la famiglia per febbre spagnola. Un anno dopo nacquero tre bambini, cui furono imposti gli stessi nomi dei defunti, a testimoniare l’istinto di sopravvivenza, perché allora, pur tra stenti ed immani sacrifici, si voleva davvero bene alla vita.