Callegari (“Vetorèl”)

callegarivett“Era il 17 Dicembre 1942 e avevo solo vent’anni. Avanzavamo nella neve alta fino al ginocchio, sotto il fuoco incessante dei mortai russi, consci di vivere i nostri ultimi istanti. Tenevo per le braccia due compagni cercando di trascinarli il più lontano possibile da quell’inferno; uno era Aldo Cosmo da Morgano, che aveva i piedi congelati e l’altro si chiamava Paolo Rossit di Pordenone, pure lui malconcio. Tutt’intorno era una continua carneficina di soldati italiani. Riuscii ad accompagnare e a spingere i due amici al camion dei soccorsi e poco dopo li vidi partire. Fu l’ultima volta perché l’automezzo, fatte poche centinaia di metri, fu crivellato da una mitragliatrice russa e nessuno si salvò”. È uno spezzone della ritirata di Russia vissuta da Pietro Callegari di Paese (Treviso-Italy), classe 1921, un’avventura, meglio una tragedia, che gli ha segnato indelebilmente la vita. Pietro è figlio di Antonio (1881-1966) chiamato “Erminio” e di Irene Santolin (1895-1934) di Castagnole. I due casati erano ubicati nella borgata detta Infaladèl. Pietro, di Gioachino, era anche il nonno che a Castagnole s’era insediato intorno alla metà del XIX secolo provenendo da Musano portandosi il soprannome di “Vetorèl”, nomignolo che resiste tuttora nella sua discendenza senza che se ne conosca il significato. Si trattava di una famiglia poverissima. Pietro e Anna Bertelli furono sposi a Castagnole il 21 Febbraio 1876; matrimonio fecondato dall’arrivo di sette figli. Il promogenito era Antonio “Erminio”, tenuto al fonte battesimale da Luigi Scremin di Giuseppe, domiciliato a Fonte, di professione mugnaio a S. Bona presso Adriano Sarzetto; così è descritto l’atto di battesimo nei registri della Parrocchia di Castagnole. Gli altri figli di Pietro erano Virginio (1888), seguito l’anno dopo da Virginio Giacomo (1889), Amabile Regina (1891); Giovanni (1896) chiamato “Ton”, Amabile Antonia (1898), e Luigi Vittorio (1900). Le ripetute omonimie stanno ad evidenziare la mortalità infantile. Agli inizi del secolo scorso, Erminio era emigrato in Canada, a Vancouver, con in tasca un contratto di scaricatore di porto. Spalava carbone dai carri merci che arrivavano dalle miniere. Un giorno che con una carriola trasportava il minerale dal treno alla chiatta, perse l’equilibrio e cadde in mare rischiando di annegare. L’aveva poi presa con ironia affermando che era la prima volta che si lavava da quando era giunto laggiù. Ritornò in Italia alcuni anni più tardi, nel 1923. Con i risparmi guadagnati acquistò a Fossalta Maggiore un appezzamento di quattordici campi di terra, con annessa casa colonica, contraendo dei debiti ipotecando il capitale. Purtroppo la sorte non gli fu favorevole perché lo colse la grave crisi del 1929-30 e perdette tutto... Nel Gennaio 1941, Pietro, figlio di Erminio, partì per la leva militare. Nel Giugno dello stesso anno scattò l'invasione della Russia. Iniziava così la tragedia delle “Centomila gavette di ghiaccio”… Dopo la battaglia i fossati e le strade erano colmi di cadaveri: una vera carneficina. Pietro e commilitoni andavano ovunque occorresse passando sopra i corpi dei caduti con le moto “Guzzi”. Ben presto però anche queste, per il gelo divennero inservibili e furono abbandonate. In loro aiuto arrivarono presto dei camion che li portarono a rinforzare i loro reparti, ma arrivarono i micidiali carri armati russi T34 e le famigerate katiusce, con razzi multipli piazzati sui camion e sparati come piccoli missili. Pietro e compagni si lanciarono in una trincea, ma chi si sdraiava era inesorabilmente investito dal piombo dei proiettili che cadevano dall’alto come una violenta grandinata. Solo se si stava rannicchiati con l’elmetto in testa c’era speranza di cavarsela. Rimasero quattro giorni sotto il fuoco incessante, senza cibo e al gelo, in balia delle incursioni dei caccia sovietici, i famosi Mig. Riuscirono poi a ritirarsi per quattro chilometri dove poterono finalmente mangiare una fredda pastasciutta. L’Armata Rossa avanzava velocemente e le truppe italiane, rischiando di essere circondate, si ritirarono formando un caposaldo in un paese più indietro. I russi erano equipaggiatissimi, oltre ai carri armati erano supportati da un’efficiente aviazione. “La neve - racconta Pietro Callegari - era alta quasi come le case e noi non avevamo armi per difenderci. I nostri cannoni e le mitragliatrici non potevano sparare per mancanza di munizioni e non c’era carburante per scappare con gli automezzi”. In quella situazione non restava che trincerarsi e aspettare il peggio. Chi usciva allo scoperto era subito colpito dalla mitraglia e cadeva sui mucchi di neve arrossandola con il proprio sangue che immediatamente coagulava. C’era chi cadeva seduto sulla neve rimanendo immobile, ghiacciato; in quella posizione sembrava da lontano che fosse ancora vivo e veniva ulteriormente mitragliato. Pietro e i compagni, sotto l’incessante bombardamento dei mortai, avanzarono fortunosamente, stremati, in una situazione che sembrava irreale, consci di vivere i loro ultimi istanti…

Please publish modules in offcanvas position.

Free Joomla! templates by AgeThemes