Nel 1929, a Biella, si traslatava il corpo di Giovanni Bosco verso la basilica di S. Maria Ausiliatrice in Torino in occasione della beatificazione. Lo accompagnavano quaranta bande cittadine, provenienti da ogni parte d’Italia mentre una folla di fedeli era assiepata lungo il percorso. Amelia D’Alessi era tra loro. Aveva solo dodici anni ed era ospite in città delle suore salesiane. Di quell’avvenimento, impresso nel cuore di ragazza di campagna, ricordava soprattutto lo scampanìo delle chiese, indimenticabile. Già… le campane. Nei D’Alessi avevano segnato la vita d’intere generazioni; campanari era il loro mestiere fin dal 1840, per questo da tutti conosciuti a Paese come “Campanèri”. Abitavano di fronte al campanile di Paese (Treviso – Italy), nella casa rurale dei Balzero di Zero Branco, avuta in affitto con alcuni campi di terra, poi acquisita come buon’uscita. Non si sa di preciso quando questo nucleo familiare abbia fatto la sua apparizione a Paese, certo era collegato con gli Alessi di Castagnole. In Paese si ha notizia di un certo Pier Antonio (1738-1820), figlio di Alessio, fu Giovanni. Quest’ultimo nato probabilmente intorno al 1680. Seguirono varie generazioni fino a Pietro, nato nel 1840, nonno di Amelia. Pietro era il marito di Antonia Milanese (1843) da Paese, che gli diede quattro figli fra il 1870 e il 1882: Maria, Giovanna, Antonio e Giovanni. Di professione faceva il fabbro, specialista in arnesi agricoli, che costruiva con maestria forgiando il ferro nel caminetto di casa e modellandolo a suon di martellate. Con questo mestiere sbarcava il lunario, ma non visse a lungo, morì a soli 44 anni, lasciando la vedova nella disperazione di tirare avanti la famigliola in tempi di estrema povertà. Venuto il tempo, tutti i figli formarono la propria famiglia. Antonio si sposò con Costanza Becevello, Giovanni (1882-1963) la concittadina Maria Callegari (1880-1961). Un matrimonio prolifico di otto eredi, nati tra il 1909 e il 1923: Alessandro, Severina, Lino, Antonietta (morta a soli tre anni), Amelia, Antonietta (divenuta poi suora salesiana), Pietro e Giuseppe. Per qualche tempo le due famiglie convissero negli stessi locali, finché, al ritorno di Antonio dalla Guerra, si divisero in due nuclei separati pur rimanendo nella stessa casa. Le due famiglie insieme garantivano alla parrocchia il servizio di campanari e sacristi, oltre alle pulizie della chiesa e la carica dell’orologio una volta al giorno. Suonar le campane era un impegno che esigeva la disponibilità e la forza di ben tre persone adulte, perché si azionavano a braccia, per mezzo di lunghe corde che arrivavano fino alla cella campanaria. Un lavoro che i “Campanèri” svolsero con puntualità e dedizione, trattandolo come una missione, per questo erano apprezzati da tutto il paese. Una riconoscenza che si manifestava in occasione della questua annuale, a racimolare un po’ di frumento o di granoturco per ricavarne qualcosa. Con l’aggiunta di 70 lire all’anno, era la loro paga, ma che costava anche qualche umiliazione: “Zé qua èl campanèr in mòsina”, lo accoglieva qualcuno con poca delicatezza. Come si diceva, il suono delle campane comportava forza e dispendio di energie, tanto che papà Giovanni dovette essere operato per ben tre volte di ernia. S’iniziava alle prime luci dell’alba con la campana dell’«Avemaria». Si replicava a mezzogiorno e al crepuscolo. La puntualità era una delle doti dei D’Alessi, eppure nei primi anni Sessanta, l’arciprete mons. Mario Ceccato bussò un giorno insistentemente alla loro porta, per sollecitarli a suonar l’«Ave, Maria», “perché la gente doveva andare nei campi a seminare e si regolava così”: erano le quattro di un fresco mattino d’estate. Si vedeva allora una lunga fila di persone e di quadrupedi dirigersi sbrigativamente verso la campagna: era quello il mestiere di tutti. Quella più temuta era la campana “a martèl”. Caratterizzata da rintocchi secchi, per il cui suono occorreva anche una certa specializzazione; segnalava che era in atto un incendio. Allora tutti scrutavano l’orizzonte per vedere da dove si levasse il fumo e poter accorrere con i secchi a cercare di salvare il salvabile. Successe negli anni Cinquanta in Via San Luca, un incendio divampò nella casa della famiglia Baggio. Un suo membro accorse in piena notte, in mutande, a buttar giù dal letto i “Campanèri” perché dessero l’allarme. Quella volta, nonostante il prodigarsi di decine di persone, fu una vera sciagura: andò a fuoco il fienile, ma anche la stalla con maiali e mucche. Scattò immediatamente anche la solidarietà di tutto il paese a ridar speranza alla famiglia disastrata. In anni più recenti, con il potenziarsi del servizio svolto dai Vigili del Fuoco, la campana “a martèl” è stata dismessa. I Baggio emigrarono in Canada…