Era uno dei pochi pozzi esistenti a Villa di Paese (Treviso - Italia) quello dei “Castaldóni” e serviva una ventina di famiglie. Una concessione gratuita che si protrasse fino all’arrivo dell’acquedotto comunale. Sì perché, da queste parti, l’acqua è sempre stata considerata un bene comune da condividere e da non sprecare. Castaldóni, da castaldo, vale a dire il fattore che curava gli interessi agricoli del nobile padrone, è ancora il soprannome della famiglia Favero o Favaro (da faber, fabbro). I due cognomi, che si differenziano nella seconda vocale, si trovano perfino all’interno dello stesso ceppo, anche tra fratelli, registrati or con l’uno or con l’altro. Abitavano nella cinquecentesca Casa Rossa, una delle due grandi adiacenze rurali di Villa «La Quiete». Il più longevo dei Castaldoni si chiamava Antonio (1849-1924), la moglie Anna. Questi avevano tre figli maschi: Antonio, Fiorino e Giacomo detto “Méto”, nato nel 1885. Giacomo si sposò con Domenica Mattarollo (ramo falegnami), detta “Ninéta” (1890). Negli anni Trenta del secolo scorso, la casa dei Castaldoni era occupata da oltre cinquanta persone, appartenenti a tre nuclei familiari. Lavoravano, in tutti, ben 120 campi di terra quali fittavoli della famiglia Pellegrini-Dai Coi. Nella stalla diciotto bestie costituivano il patrimonio indispensabile per lavorare tutto quel terreno, oltre che per sfamare tante bocche. La collaborazione vicendevole era la loro caratteristica. Una situazione che durò fino al 1944 quando la Seconda Guerra Mondiale chiamò alle armi i componenti maschi, ma alcuni emigrarono in Canada, avviando così un filone genealogico americano. È il caso dei figli di Gottardo (1899-1978) e di Fiorino D’estate, davanti alla Casa Rossa si giocava a “bandiera” tutte le sere. Vi partecipavano anche i Bresolin e i Martinelli “Rochi”. Quest’ultimi erano imparentati con i Castaldoni grazie a Virginia Favero, figlia di Giacomo, andata sposa in quella famiglia. Nonostante la povertà di mezzi di sostentamento, la serenità era una costante: si cantava spesso, succedeva anche quando sotto il gran porticato si spannocchiava il “çeventìn”. Questo granoturco cinquantino era seminato in piena estate, di notte, per evitare che le bestie soccombessero per la calura. In una di queste occasioni, Antonio Favero, alzatosi ben prima dell’alba, accompagnò suo padre nei campi, seduto sull’aratro trainato da un’asina. Solo all’arrivo il genitore si accorse di aver perso il figlio per strada, scivolato nel fosso laterale e, ritornato sui suoi passi, lo trovò ancora semiaddormentato. Il pane era fatto in casa e cotto nel forno dei Bettio (“Bassàchi”). Ognuno si portava l’impasto, ma anche la legna da ardere. La porta del forno veniva tappata accuratamente con dello stallatico bovino, per non disperdere il calore. Di servizi igienici neppure a parlarne, l’unico cesso (una buca con delle tavole) stava nel cortile, con le pareti di canne e un tetto provvisorio. A Paese, la Casa Rossa è disabitata fin dal 1957, anno in cui anche gli ultimi Castaldóni l’hanno lasciata, ma è ancora visibile nella sua struttura originaria, custode silenziosa di tante traversie e tradizioni. L’albero genealogico della famiglia Favero, continua invece a proliferare di nuovi virgulti, forse immemori delle loro radici.