Francescato (“Gasparón”)

Francescato, un cognome che potrebbe derivare da Francesco o da francese, è diffuso quasi esclusivamente nel Norditalia, soprattutto nel Veneto, dove va a braccetto con Francescon, Franceschi e Franceschin. Il soprannome Gasparon sembra invece derivare da Gaspare o Gasparo. Già il 3 dicembre 1732, in Castagnole, da Valentino Francescato e Angela sua legittima consorte, nasceva Gasparo. E nei primissimi anni del XIX secolo, in Porcellengo, la più piccola frazione di Paese (Treviso-Italia), da Lorenzo Francescato (1764) e Domenica Zanatta, nasceva Gasparo che, nel novembre 1832, si coniugò con Francesca Sartori da Padernello. I due sposi generarono cinque figli: Angela (1834), Lorenzo (1836), Angelo (1839), Domenica (1842), e Domenico (1844). Gasparo era fratello di Lucia Martina (1805), ma anche di Pietro che si congiunse a Caterina Favero da Castagnole il 26 novembre 1834. Angelo, Domenico, Pietro, Lucia, con Giovanni e Antonio sono nomi ricorrenti in questo casato presente in Paese fin dal XVII secolo. Tra il Settecento e l’Ottocento erano abituali anche i Vincenzo. Nel 1802 nasceva infatti Vincenzo Francescato, figlio di Giobatta di Domenico e Catterina De Lazzari. Nel 1816 vedeva la luce Vincenzo, figlio di Andrea di Vincenzo e Maddalena De Lazzari. Nello stesso anno andava all’altro mondo “Stefano Francescato del fu Vincenzo e della fu Lucia De Rossi, nubile, in età d’anni 32 ca., di costituzione asmatico, di corporatura deforme e gobbo…”. Il 3 Novembre 1754, Mattio Francescato, figlio di Vincenzo, “relitto in primi voti della fu Lorenza Severin”, sposava in seconde nozze Pasqua Meggioranza. Come si può intuire erano particolarmente numerosi in Paese i nuclei familiari dei Francescato. Da dove provenisse questa famiglia di preciso ancora non si sa. Certo è invece che già alla fine del Seicento esisteva a Paese, da dove si è allargata anche a Porcellengo e a Quinto di Treviso. Fanno compassione ancor oggi certi fatti, accaduti in zona due secoli or sono, attraverso i quali si può leggere la ristrettezza delle condizioni di vita: “Addì 25 Maggio 1817, Domenica di Pentecoste. Bortolammeo figlio di Domenico Menegol della Parrocchia di Colbertaldo, questuante, fu ritrovato giacente in terra dentro i confini di Padernello jer mattina alle ore quattro, molestato da violento male di epilessia, privo di sensi, aveva appesa al collo una piccola chiave così detta di S. Valentino, gli fu amministrata l’assoluzione, l’estrema unzione e la Benedizione Papale, e quindi con diligenza fu trasportato in casa di Lorenzo Favero detto Caneo, dove rinvenuto alquanto gli fu apprestato un po’ di alimento, ed alla interrogazione del parroco stentatamente s’espresse del nome e cognome sovrascritto. Sul mezzodì poi venne assalito dal suo male sicché alle 2 pomeridiane morì, ed in questa sera fu seppellito in questo cimiterio”. Il 28 novembre 1822 si sposavano in Porcellengo Giovanni Francescato (1804) e Chiara Favotto (1803). I due sposi andarono ad abitare in Postioma nella casa dei genitori di lui. Fu qui che venne al mondo il loro figlio Domenico (1840-1926), che sposerà nel 1862 Maria Teresa Tonini (1841) del Pio Luogo di Treviso. Da Domenico e la Tonini nacquero tre figli: Giovanni (1867), Angela (1869) detta Eta, e Luigi (1870), che sposò Benedetta Bresolin da Padernello. Domenico era molto alto di statura e oltre a contadino faceva anche il mediatore. Suo figlio Giovanni, dopo essere stato tre anni in America, aveva sposato in prime nozze Angela Parati del Pio Luogo di Venezia, che gli aveva dato Pietro Fortunato (1894-94) prima di andare all’altro mondo con il figlio da poco partorito. Giovanni si risposò in Porcellengo, il 13 Aprile 1899, con la compaesana Pierina Zanatta (1874) figlia di Sante “Doro” e Giovanna Identici. Giovanni emigrò in Argentina nel 1890, al tempo della Grande Crisi, viaggiando su un piroscafo fatiscente che rischiava di affondare tra i flutti. Aveva in tasca un contratto di bracciante nella pampa che comprendeva le spese di viaggio, anzi del “trasporto”. Prima di partire aveva scritto ai Baldassin, suoi compaesani ivi emigrati già da qualche tempo, per ottenere ospitalità e aiuto. Questi gli avevano assicurato che sarebbero andati a riceverlo alla stazione del paese, o eventualmente avrebbe potuto raggiungerli lui stesso uscendo dalla stazione, e dirigendosi in linea retta fino alla loro abitazione. La cosa sembrava semplice, fin troppo. All’arrivo, non trovando nessuno ad accoglierlo, provò a far come gli avevano suggerito. Uscito dalla stazione di strade ne vide più d’una e, non sapendo quale imboccare, decise di attendere i Baldassin nella sala d’aspetto della stazione. Dopo qualche ora chiese informazioni ad un negro, ma quello non conosceva la lingua e dopo avergli borbottato qualcosa se ne andò. Attese ancora per delle interminabili ore e finalmente giunse uno dei Baldassin con il calesse trainato da una cavallina. Dopo pochi sbrigativi saluti, il Baldassin, poiché doveva sbrigare delle faccende in paese, mise in mano le redini a Giovanni dicendogli di non preoccuparsi, che avrebbe pensato la cavalla a portarlo a destinazione. Infatti, dopo un po’ la cavalla si fermò davanti ad una baracca di legno, mentre i Baldassin uscivano a dargli il benvenuto. Fu un impatto assai traumatico. Altro che futuro di benessere! A giudicare dall’abbigliamento dei compaesani, dalla baracca di legno e sterco in cui abitavano, dal pavimento in terra battuta, dal loro modo di vivere in promiscuità con gli animali, le speranze di una vita di benessere morivano sul nascere…

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