Era un mattacchione “Nani Majer” di Padernello, un vero burlone, che sapeva prendere la vita con ironia. Le sue storie, con le proverbiali battute e i suoi scherzetti, tramandate a voce, si rimembrano ancora oggi. Era nato nel 1876 ed aveva altri cinque fratelli e due sorelle, tutti figli di Osvaldo Miglioranza (1845), originari da Biadene di Montebelluna. La famiglia Miglioranza si radicò a Padernello, frazione di Paese (Treviso-Italia), intorno al 1880, sulla proprietà dei signori Mandruzzato di Treviso. Lavoravano da fittavoli la terra di questa famiglia, ma vista l’operosità e l’attitudine dei Miglioranza, i Mandruzzato fecero costruire un "majo" (fucina) per forgiare il ferro e per azionare un mulino “da grano”; lo testimonia il “Contratto di concessione d’uso dell’acqua Brentella per forza motrice, per animare un opificio in Padernello”, stipulato nel 1908. Il Bretella, quindi, fu silenzioso testimone, oltre che protagonista, di un'epoca che ha visto tante bocche sfamarsi grazie alla generosità del suo prezioso indispensabile apporto: l'acqua. "In principio era il Majo...". Dall'estro e dalla maestria di Giuseppe ed Ernesto Miglioranza, fratelli di Giovanni, uscivano attrezzi agricoli e arnesi per ogni mestiere, per questo a Sala d'Istrana li avevano soprannominati "Armentèri". Una vera passione di famiglia, che continuò per decenni e venne anche esportata in altre località. Ernesto emigrò a Vedelago con la sua attitudine di mastro ferraio, passando poi il testimone al figlio. Gli altri fratelli si chiamavano Antonio, Luigi e Umberto. Una famiglia d’intraprendenti quella dei Miglioranza che, intorno al 1885, avviò l'attività di "munèri" (mugnai), professione che acquistò notevole impulso in seguito alla stipulazione del contratto di cui sopra, divenendo anch'essa tradizione familiare con quella di “armentèri”. La prima macina del mulino era davvero primordiale, composta di due pesanti ruote in pietra che erano fatte girare da un cavallo. Nel 1907, complice il vicino canale e il majo, fu costruita la prima "mola" (macina) mossa dall'acqua. In quel periodo la fame la faceva da padrona assoluta. Davvero pochi si potevano permettere un pezzo di pane e i patti agrari erano sbilanciati in favore dei proprietari terrieri. La popolazione era soggiogata da padroni talvolta tiranni, ma ancor di più da una mentalità di rassegnazione, cioè dalla convinzione di non poter ribellarsi per evolvere in meglio la propria condizione. Analfabetismo e ignoranza condizionavano questo deleterio modo di pensare. L’alimento principale era la polenta, fatta per l'ottanta per cento da acqua, con la quale si poteva solo riempirsi la pancia, mancando di vitamine e di proteine. Oltretutto si abitava in case miserabili, dove era permanente la scarsa alimentazione e sempre presente la pellagra e altre malattie infettive, quali tifo e tubercolosi, agevolate dalla mancanza di comportamenti igienici. In questa situazione il mulino e la generosità dei Miglioranza furono riferimento e garanzia di sopravvivenza per le famiglie della zona. A modernizzare il mulino, introducendo via via macchinari sempre più ricercati, fu Giovanni, aiutato dai figli Angelo, Antonio e Tommasina. Con il passare del tempo a raccogliere l'eredità di "munèri" fu poi Antonio (1903-97) con la sua sposa Emilia Severin (1913) detta Cornelia, coadiuvati dai sei figli: Giuseppe (1935), Ruggero (1938), Teresina (1940), Guerrina (1943), Aldo (1944) e Aronne (1947). Angelo (1902-2002) intanto si era trasferito a Pezzan d'Istrana dove aveva aperto un'osteria. Anche Antonio e signora avevano avviato un'osteria in Via Roncalli a Padernello, girando le spalle al mulino nel 1970, lasciandolo nelle buone mani dei figli. Il 1916-17, cuore della prima guerra mondiale, fu un periodo critico; il Brentella rimase in secca, tanto che i Miglioranza decisero di prendere in affitto un mulino lungo il Sile, a Morgano. La linea del Piave aveva bisogno di quell'acqua per rigonfiar le sponde e arginare l’avanzata austriaca. In mezzo all'orto dei “Majèri” era ricavata una trincea sostenuta da palizzate di legno; qui ci si rifugiava ogniqualvolta si avvicinavano degli aeroplani nemici. Nel 1957, Giuseppe, il primogenito di Antonio e Cornelia, decise di tentare l’avventura emigratoria. S’imbarcò a Venezia sulla nave “Vulcania” che in una decina di giorni lo traghettò al porto di Halifax (Canada), da dove proseguì per Guelph (Ontario). Ma emigrare non era fare il turista, bensì una vita particolarmente dura, aggravata dalla lontananza dai propri affetti, in una terra che, pur ospitale, ti faceva sentire straniero. Non mancava certo a Giuseppe la voglia di costruirsi un futuro migliore; si adattò a far un po’ di tutto, dal manovale all’operaio, dal falegname al carpentiere, a Toronto come a Sudbury e in altre località del Canada. Nel 1970 gli capitò di vivere l’esperienza che gli segnò la vita: un contratto di lavoro con il Governo Canadese che lo portò a lavorare nel Northwest Territories, a Grise Fiord nell’Elesmere Island, a soli milleduecento chilometri dal Polo Nord, in occasione del centenario dell’adesione di quella regione alla Confederazione Canadese...