Mio padre si alzava presto la mattina, d’inverno con il buio pesto, d’estate alle prime luci, prima ancora che il gallo svegliasse tutto il vicinato. Con il suo Motom50 a miscela, si recava in una fabbrica di piastrelle a Treviso. Non mancò mai dal lavoro perché non poteva permettersi di perdere nemmeno una giornata avendo una numerosa famiglia sulle spalle, e grazie a Dio, pur essendo magrissimo, la salute lo assisteva. Ci andava in tutte le stagioni con la forza dei suoi anni in fiore, che fosse bello o brutto, con la nebbia, il freddo, la pioggia o la neve. Nelle giornate ventose, sotto un liso pullover di lana, per proteggersai il petto, inseriva un foglio di carta di cellulosa strappata dai sacchi di cemento. Nella stagione rigida, invece, applicava il parabrezza al motorino e indossava un roso giaccone di pelle donatogli da un conoscente. Ritornava nel pomeriggio, non per riposarsi ma per andare in campagna a lavorare un modesto appezzamento di proprietà, coltivato ora a granoturco ora a frumento dove c’era sempre tanto da fare: togliere le erbacce, zappare, falciare, rastrellare e caricare l’erba che trasportava su un carrettino attaccato alla sella della bicicletta. Tutta la vita così. L’unico vantaggio era di trovarsi in un ambiente green, tra la natura incontaminata, la sola che si prendeva cura del suo benessere. L’erba raccolta lungo i fossati serviva per nutrire la mucca che tenevamo nella stalla a fianco dell’abitazione presa in affitto. Già prima di recarsi al lavoro, Giobatta accudiva e mungeva la bestia, parlandole e curandola come fosse un familiare cui tutti noi eravamo aggrappati per come ci ricambiava: era il nostro supermercato. Ricordo il giorno in cui dovemmo liberarcene per trasferirci nella casa nuova: mio padre, con il cuore in mano, la raccomandò al compratore dicendogli di trattarla bene perché era buona e produttiva. L’altro lo guardò in volto stupito, poi comprese che stava soffrendo il distacco e gli diede ampie rassicurazioni.