Mio padre si alzava presto la mattina, d’inverno con il buio pesto, d’estate alle prime luci, prima ancora che il gallo svegliasse tutto il vicinato. Con il suo Motom50 a miscela, si recava in una fabbrica di piastrelle a Treviso. Non mancò mai dal lavoro perché non poteva permettersi di perdere nemmeno una giornata avendo una numerosa famiglia sulle spalle, e grazie a Dio, pur essendo magrissimo, la salute lo assisteva. Ci andava in tutte le stagioni con la forza dei suoi anni in fiore, che fosse bello o brutto, con la nebbia, il freddo, la pioggia o la neve. Nelle giornate ventose, sotto un liso pullover di lana, per proteggersai il petto, inseriva un foglio di carta di cellulosa strappata dai sacchi di cemento. Nella stagione rigida, invece, applicava il parabrezza al motorino e indossava un roso giaccone di pelle donatogli da un conoscente. Ritornava nel pomeriggio, non per riposarsi ma per andare in campagna a lavorare un modesto appezzamento di proprietà, coltivato ora a granoturco ora a frumento dove c’era sempre tanto da fare: togliere le erbacce, zappare, falciare, rastrellare e caricare l’erba che trasportava su un carrettino attaccato alla sella della bicicletta. Tutta la vita così. L’unico vantaggio era di trovarsi in un ambiente green, tra la natura incontaminata, la sola che si prendeva cura del suo benessere. L’erba raccolta lungo i fossati serviva per nutrire la mucca che tenevamo nella stalla a fianco dell’abitazione presa in affitto. Già prima di recarsi al lavoro, Giobatta accudiva e mungeva la bestia, parlandole e curandola come fosse un familiare cui tutti noi eravamo aggrappati per come ci ricambiava: era il nostro supermercato. Ricordo il giorno in cui dovemmo liberarcene per trasferirci nella casa nuova: mio padre, con il cuore in mano, la raccomandò al compratore dicendogli di trattarla bene perché era buona e produttiva. L’altro lo guardò in volto stupito, poi comprese che stava soffrendo il distacco e gli diede ampie rassicurazioni.

Padre Massimiliano Kolbe, canonizzato da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1982, è colui che mi ha dato l’imprinting di scrittore, ma non perché lo era egli stesso avendo fondato nel 1921 Il Cavaliere dell’Immacolata, un periodico con una tiratura di un milione di copie, bensì per la sua storia di martire che mi capitò di ascoltare da un mio professore di letteratura e poi di commentare nel giornale a muro esposto nel collegio in provincia di Vicenza, dove frequentavo il ginnasio. Quel mio primo scritto pubblico fu molto apprezzato, molti si complimentarono, e ciò m’incoraggiò a continuare su questa strada appena iniziata.

È il 1953. La Seconda guerra mondiale è finita da pochi anni, ma l’Italia è perdente e tutta da rifare; si vedono in giro tanti accattoni, soprattutto mamme rimaste vedove per la perdita del marito, con figli piccoli da sfamare; ci vorranno decenni per risollevarsi. Con questa convinzione molti giovani se ne vanno per cercare di costruirsi un avvenire altrove. Anche Lino Vanin, di Quinto di Treviso, poco più che ventenne, decide di imbarcarsi e andare lontano dalla miseria che perseguita la sua famiglia. «Vado in Australia!», dice ai suoi. Vuole darsi un futuro là dove le condizioni economiche lo permettono, in un continente in pieno sviluppo. Al paese la famiglia lavora degli appezzamenti di un signorotto locale, ma i benefici vanno principalmente allo stesso e occorre sempre tanta fantasia per sopperire alle privazioni. Con pochi soldi in tasca, Lino saluta i suoi, genitori e nove fratelli, e messe in valigia le povere cose personali, si avvia stimolato dai suoi anni ardimentosi convinto che un giorno ritornerà da vincitore, ma… chi può dire quando? Nessuno ha la sfera di cristallo in una situazione così incerta. Luigia e Angelo, i genitori, temono di non rivederlo mai più, e così infatti sarà. 

Nel 1982, quando lavoravo alla Cassa di risparmio della Marca Trivigiana, conosciuta come Cassamarca, mi capitò un’esperienza singolare che pur a distanza di tanti anni rimane più viva che mai nella mia mente. In un certo senso ho partecipato alla «Resistenza» anche se l’Italia era stata liberata da quasi un quarantennio.

Un giorno si presentò in sede un distinto signore dalla corporatura asciutta, carnagione scura e occhiali da vista, tenendo un vistoso malloppo di carte in mano; all’usciere chiese del capufficio. Questi lo fece accomodare e poco dopo mi chiamò facendomi partecipe della richiesta dell’uomo che nel frattempo aveva aperto l’incartamento mostrando dei disegni a china e a matita che raffiguravano dei prigionieri, in particolare di origine ebraica, che egli stesso aveva raccolto girando con il camper vari paesi europei nelle località dei campi di sterminio nazisti. 

In Iran il coraggio è donna. Un nuovo adagio dice: «Sei coraggioso come una donna». Ciò avviene da quando le donne iraniane si sono mobilitate chiedendo diritti e libertà, tenendo testa a un regime sanguinario, che dal 1979 governa con pugno di ferro. Ad affermarlo è stata Fatima Benam, quarantaseienne iraniana, in una conferenza tenuta nel gennaio 2024 in un’università degli adulti del Veneto, presenti duecentocinquanta soci, impressionati dalla sua testimonianza. 

Sembrava di sentire ancora il tuono del cannone e il crepitio delle mitragliatrici quando i Vettorel s’insediarono su una presa del Montello, nel Trevigiano, provenendo da Cordignano. In questo paese ai piedi del Cansiglio erano stati mezzadri dei Conti di Mocenigo, una famiglia veneziana di nobili origini, alle dipendenze dei quali si erano sempre trovati bene, poi il rapporto si era incrinato e dovettero emigrare. Qualcuno dice che fu perché si erano ribellati a certe imposizioni, quali portare le «dovute» onoranze ai signori. Di fatto il vero motivo non si seppe mai. A quei tempi, inizio del XX secolo, la popolazione veneta era sostanzialmente contadina, assoggettata ai proprietari terrieri che avevano il potere di far vivere o far morire di fame la povera gente dei campi che si spaccava la schiena operando per loro.

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