Aveva diciotto anni Rita Dametto (1926) e sebbene si fosse in tempo di guerra, guardava la vita con l’ottimismo della sua giovinezza piena di progetti. La primavera pennellava la natura con sgargianti colori, senza trascurare alcun particolare come e meglio di un quadro di Bernardino di Beto, detto il Pinturicchio. Quella mattina d’aprile 1944, mamma Anna l’aveva incaricata di recapitare le onoranze al padrone, il prof. Rubinato, primario ospedaliero all’Ospedale S. Maria dei Battuti, di cui i “Daméti” erano mezzadri. Aveva pertanto caricato la cesta di “sanguanèle”, una specie di “crivola” fatta a pera, con dei capponi, sul portapacchi anteriore della sua rumorosa bicicletta e li aveva recapitati all’abitazione del chirurgo in Piazza del Grano.
Assolta l’incombenza si accingeva ormai a ritornare, quando si diffuse l’allarme aereo, seguito da un fuggi fuggi generale verso i rifugi. La gente correva trafelata verso il riparo; c’erano mamme che chiamavano i figli, padri che chiamavano le spose e viceversa; nel trambusto generale, Rita invece che correre al riparo si mise a pedalare con tutta la forza
che aveva in corpo riuscendo a portarsi fuori città. Imboccata quindi la Statale Postumia fu testimone di una battaglia aerea tra un aviogetto tedesco di trasporto truppe e un caccia americano. Fu quest’ultimo ad avere la meglio; mentre Rita si gettava nel fosso della “stradona”, l’aereo tedesco precipitò in fiamme nella campagna di Treviso con il suo carico
di settanta persone. Nessuno si salvò.
[...] Nonostante i lancinanti dolori e la paura di morire, Rita riuscì a trascinarsi nel fosso, dove fu soccorsa e ricoverata nella vicina abitazione di Battista Venturin (“Spinòto”) a Paese (Treviso). La gamba era in sostanza attaccata solo con poca pelle e dai fori usciva molto sangue; fortuna volle che nessun organo vitale fosse stato leso. Fu bendata prontamente, ma sembrava che per lei non ci fosse più nulla da fare. Prima dell’autoambulanza arrivò don Giuseppe Pizzolato, cooperatore di don Attilio Andreatti, che le amministrò l’Estrema Unzione. Giunti finalmente anche i soccorsi fu portata all’Ospedale dove rimase per giorni tra la vita e la morte, con l’arto che s’infettava; fu allora che i medici decisero di amputarlo per salvarla da morte sicura. In sala operatoria, a fine intervento, risuonò l’allarme aereo. I medici si affrettarono a bendarla alla meglio rimandandola in branda nel reparto dov’era stata ricoverata. Mentre squadriglie di bombardieri angloamericani sopraggiungevano a radere al suolo la città, Rita si riprendeva lentamente dall’anestesia. La assisteva la caposala suor Albina, religiosa dorotea tentando di tenerla tranquilla, mentre le case e i palazzi tutt’intorno all’ospedale venivano sventrate da enormi micidiali ordigni, che pesavano anche mille chili.
[...] Rita (1926) era la secondogenita di Emilio Dametto (1899-1965) e Anna Zero (1902-90). La mamma era nata in Brasile da genitori italiani, emigrati nel periodo della Grande Crisi della fine Ottocento per lavorare nelle piantagioni di caffè e di cotone. I genitori erano poi ritornati a Vallà, donde erano partiti, senza aver fatto fortuna quando Anna aveva appena un anno.
Trova origine a Vallà di Riese Pio X e Altivole la famiglia Dametto, conosciuta come “Vetorèi”. Si trattava di una patriarcale famiglia, tipica del mondo contadino di allora, che si difendeva lavorando un pezzo di campagna di cui era proprietaria con la casa. A Vallà coabitavano quattro fratelli con i rispettivi nuclei familiari, condividendo fatiche e speranze per un futuro migliore. Si trattava di Luigi, Valentino, Giuseppe e Carlo.
Luigi (1863) era il nonno di Rita, con cui è iniziata questa storia, e di Matteo Dametto, classe 1931, che abitava con la moglie Flora Borsato (1937) e figli in Via Oston a Paese, dai quali sono state registrate queste memorie.
Dametto. Come nasce il cognome? Il nome solitamente è scelto dai genitori, talvolta da qualche parente invadente che minaccia altrimenti di togliere l’eredità. [...] Non sfugge a questa regola il cognome Dametto, che potrebbe derivare da Adamo, ma anche da valletto o donzello. Partito sicuramente dalla zona di Altivole, attualmente è diffuso in settantatrè comuni, quasi esclusivamente in Italia Settentrionale, particolarmente nel Trevigiano, ma anche nel Veneziano, nel Torinese e in Lombardia. Doveva comunque essere una famiglia solida ed anche con una certa disponibilità economica visto che possedeva terra e casa, condizioni queste che la distinguevano non poco da altre famiglie. Ma si deduce anche dall’emigrazione avvenuta intorno al 1911; infatti, mentre Giuseppe rimaneva nella casa paterna, gli altri acquistavano dei terreni e si sistemavano altrove. Carlo si trapiantò a Santa Bona di Treviso; Luigi e Valentino a Rovarè acquistando trentaquattro campi di terra con casa colonica. Con l’emigrazione si perse il nomignolo di “Vetorèi”.
Luigi (1863-1928) si era sposato con Anna Bandiera (1869-1954) da Albaredo. Fu un’unione prolifica di tredici figli in ventisei anni: tra il 1889 e il 1915.
(La storia di questa famiglia si trova nel 2° volume Famiglie d’altri tempi, reperibile on-line su www.macrolibrarsi.it)