Pietro Biondo di Postioma (Treviso) non era solo un bravo contadino, ma anche un discreto pittore. Andava nelle case a dipingere santi e madonne in cambio di una scodella di brodo, ma soprattutto della compiacenza della gente. Insomma lo faceva per pura passione. Una sua opera, raffigurante la “Madonna Granda”, era ben visibile sulla facciata della casa di Postioma. La dimora nella quale si erano accasati i “Biondi” all’inizio del XIX secolo, provenendo da Nervesa della Battaglia, era un edificio colonico a due piani compreso il pianterreno, più tardi elevato a tre, costruito in modo da formare un sette, con quattro archi sul fronte, di cui uno più ampio per il ricovero dei carri. Includeva l’abitazione, le stalle, il granaio e il fienile. Pietro (1876-1929) era figlio primogenito di Marco (1850 ca.) e di Candida, originaria dal Montello, che misero al mondo sedici creature, anche se solo undici sopravvissero. Pietro era buon credente e forse anche fabricere della parrocchia; andava frequentemente a messa, ma il padre lo rimproverava adducendo che così si defilava da certi lavori di casa. Il figlio si difendeva dicendogli che pregava anche per lui. Questa sua fede la trasferiva anche nei dipinti. Un giorno mentre cercava di soggiogare due buoi per attaccarli al carro, se li lasciò scappare per la campagna. Non fu agevole riprenderli anche perché, subdorata la libertà, davano segni di pericolosa irrequietudine. Una trentina erano le bestie nella stalla dei Biondi, tra cui una cavalla e un puledro; servivano per i lavori campestri non esistendo ancora i trattori, per questo erano tutte ridotte a pelle ed ossa. Figlio di Marco e Candida era anche Don Domenico, che celebrò la sua prima messa nel 1914 e in seguito fu parroco a Preganziol (Treviso) per quasi cinquant’anni; morì nel 1969. C’era pure Santo, sposato con Brigida Bianchin da Castagnole, dalla quale ebbe sette figli a Chicago (U.S.A.); C’era ancora Bortolo, unito a Mira Stradiotto da Monigo; emigrò con la famiglia a Littoria nel 1932, dove risiede ancora la sua stretta parentela. Di fronte alla casa dei “Biondi” c’era una grande aia dove si trebbiava e si movimentavano i raccolti prima di stivarli nel granaio o nel fienile. Nel vicino canale Bretella le donne lavavano i panni sul “lampór”. L’acqua potabile invece l’attingevano dal pozzo dei Paccagnan, detti “Marciori”, loro vicini di casa. Prima del 1930, i “Biondi” erano riusciti a mettere da parte un interessante gruzzolo, tanto da poter acquistare una campagna di sei ettari a Santo Stino di Livenza (VE), impegnandosi ad onorare i pagamenti con quote periodiche, ma a causa della rovinosa depressione del 1930-31, seguita a quella americana del 1929 e il conseguente deprezzamento della lira non furono più in condizione di sostenere l’impegno e dovettero restituirla, perdendo denaro e capitale. Fu questo il motivo che indusse il suocero di Emilio, Giovanni Martini, emigrato in Canada fin dal 1913, a chiamare a sé i figli, due maschi e una femmina. Pure Emilio era tentato di espatriare con la sua sposa, ma il pensiero del distacco dalle sue radici lo fece desistere. Ci penseranno in seguito i suoi figli ad intraprendere l’avventura migratoria. A rimembrarci le avventure dei “Biondi” è Pietro, figlio di Emilio, che porta il nome del nonno che non ha potuto conoscere. Il 1950 fu uno di quegli anni che più registrarono le partenze dei trevigiani verso terre più generose. Il dopoguerra non lasciava intravedere nulla di buono a breve scadenza e molti tentarono l’avventura migratoria. Ci provò anche Pietro, che partì con in tasca un contratto per un anno da bracciante, procuratogli da uno zio materno che si trovava nel Nuovo Mondo già da alcuni anni. Partito da Genova sbarcò una settimana dopo ad Halifax, nella Nuova Scozia (Canada), per proseguire in treno fino a Toronto, ospite per pochi giorni della zia Irma Martini, sorella della mamma. Poi si fece altri due giorni e tre notti in treno per giungere a Calgary, nell’Alberta. Si era in primavera, ma c’erano disseminate lungo il percorso molte carcasse di animali uccisi dal gelo invernale, che uccelli rapaci scarnivano per il pasto; si trattava prevalentemente di cavalli selvatici. Giunto in stazione a Calgary vide salire un signore che lo squadrava da capo a piedi; era lo zio Giovanni Martini. Con il suo contratto di bracciante Pietro andò a lavorare a Rockyfort, in una famiglia di contadini di origine tedesca, che possedeva un’estensione di trecento ettari, in gran parte coltivata a grano; un dollaro e mezzo al giorno era la sua prima paga, oltre il vitto e l’alloggio in una baracca di legno appartata. Metà della loro campagna era coltivata, l’altra metà “riposava” alternativamente. Ci volevano quindici giorni ininterrotti per trebbiare quell’immensa distesa di frumento, nonostante che disponessero già di moderni macchinari ancora sconosciuti in Italia. Poi tutto veniva caricato sui vagoni e portato all’ammasso, dove veniva stivato in enormi silos. Qui Pietro aveva notato che una buona parte del grano cadeva dalle feritorie dei vagoni e lasciato per terra. Decise così di raccoglierlo in sacchi e, acquistate delle galline, le affidò ad un amico che le allevò con quel bendiddio; il risultato fu una gran quantità di uova. Nella farm c’era molto bestiame: vitelli, cavalli, maiali, per centinaia e centinaia di capi. In mezzo al recinto dei porci stava una casupola di legno, con delle feritoie attraverso le quali i maiali accedevano al mangime. Pietro, “Pit” per i suoi datori di lavoro, aveva notato che anche stormi di uccelli pasteggiavano con il mangime dei porci entrando da un finestrino; recatosi quindi furtivamente all’interno, con una scopa ne abbattè parecchie decine, esibendole ai padroni come trofeo di caccia, ma questi ci rimasero male. Capì allora che erano ecologisti. Il suo pensiero andava tuttavia agli inverni passati a casa, quando s’inventava di tutto pur di mangiare, catturando passeri e pettirossi con le trappole o con la “crivola” (cesta di vimini usata per custodire la chioccia con i pulcini). Il lavoro e l’aria salubre mettevano una gran fame a Pietro, lo stesso non sembrava accadere alla famiglia tedesca. A volte avanzavano delle polpette che la padrona di casa gli diceva di portare al cane, ma all’animale ne arrivava solo una parte perché qualcuna se la ingurgitava. L’inverno seguente, ridotto il lavoro, lo lasciarono libero di andarsene prima della scadenza del contratto. Trovò subito lavoro in una grande fabbrica di cemento, che dava occupazione a trecento maestranze. Vi rimase per sette anni, periodo sufficiente a fargli germogliare la voglia di mettersi in proprio. Ogni sabato, con gli amici, faceva una scappatina fino al centro di Calgary per depositare in banca lo stipendio. La distanza di cento chilometri veniva ricoperta in poco più di un’ora perché le strade in quell’immenso Paese erano già molto larghe e diritte. Sette anni dopo la sua partenza dall’Italia, Pietro si prese un mese di licenza per far visita ai suoi parenti, ma una volta ritornato a casa, la nostalgia prese il sopravvento e ci restò definitivamente. Sposata la sua Giuditta nel 1960, mise in atto le esperienze acquisite in terra americana avviando l’attività di manufatti in cemento a Castagnole, frazione di Paese (Treviso). La vecchia casa, dove un tempo erano riuniti insieme i “Biondi”, privata della “Boschéta”, sta sempre al suo posto ai confini tra Postioma e Castagnole. In epoca recente le è stato rifatto il trucco come ad una attraente matura signora; vi abitano ora i discendenti di Ferdinando, detto “Nano”, figlio di Pietro e di Angela Pavan.