C’era una volta Zuanne di Giacopo, fu Zuanne di Jacopo (1779-1841) e di Anna Lorenzetto, di Zuane… Erano questi gli antenati dei De Rossi (“Fermi”) di Sovernigo, e chissà quanto si potrebbe continuare con questa replicata sequenza genealogica. Si tratterebbe infatti di uno dei ceppi primordiali di Paese (Treviso). Già con il primo Zuanne (Giovanni) ci si attesta intorno al 1700. La loro casa, sorgeva nel cuore di Sovernigo, attuale Via Montello 47, sul terreno classificato come Brolo nelle mappe dell’epoca. Sorgeva in quest’area una nobile residenza con relative barchesse. Ma si sono trovati anche i resti di un antico monastero, in particolare della foresteria, il cui basamento allunga le sue radici sotto la casa dei Fermi; sembra infatti che questa poggi su doppie fondamenta. Fatto è che originariamente includeva due ampi porticati dov’erano ricoverati i carri e gli arnesi agricoli, ai quali si accedeva in leggera salita a conferma di quanto affermato. L’attribuzione del soprannome trova probabilmente origine da Fermo De Rossi: “1645 adì 10 december. Domenica figlia di Fermo dei Rossi et di Donna Annetta sua consorte fù battezzata da me P. Andrea Cappellano, comadre fù Donna Adriana de i Negri, tutti da Paese”, è quanto emerge nel registro dei nati dell’epoca. Dall’ultimo Zuanne derivò Basilio, che unitosi a Giulia Lorenzetto, generò Giobatta. Questi, sposato ad Elisabetta Visentin, ebbe Luigi (1840) che sposò Luigia Toniolo (1846-1925) da Boiago, figlia di Tommaso e di Giacoma Brunello da Quinto. Luigi e Luigia furono sposi nel 1867. In quell’anno in Italia veniva promulgata la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici, il cui patrimonio con oltre ventimila conventi e chiese fu assegnato allo Stato. Quasi tutte le proprietà furono consegnate al libero mercato, spesso svendute per pochi soldi o date in dono ai sostenitori politici. In seguito, cambiato un po’ il vento, per accaparrarsi simpatie dal clero, una piccola parte fu restituita, ma limitatamente agli immobili, mentre le terre furono cedute alla borghesia perché le facessero fruttare. Dai due coniugi De Rossi nacquero quattro figli, tre femmine e un maschio: Maria Teresa (1868-1915); Elisabetta Maria (1870-1950); Vittoria Santa (1872-1942); e Giacomo Luigi (1876-1944), che prese in sposa la compaesana Giovanna D’Alessi (1876-1964), figlia di Pietro “Campanèr” e di Antonia Milanese. Ancora quindi Giacomo nella famiglia dei Fermi e, come da consolidata tradizione, non poteva mancare Giovanni. Infatti con questo nome fu battezzato il loro primo pargoletto, “Joanìn” (1906-2003), che si unì a Maria Pavan (1907-1994) da Sovernigo, figlia di Valentino e Amelia De Marchi. In seguito videro la luce altri tre figli. La secondogenita era Isolina (1908-78), che si ritirò in convento presso le Suore della Consolata di Torino come “sorella laica”, ma in precedenza era stata anche a Pistoia (cfr. la famiglia Rossato). Nacque poi Pietro (1911-1987), che fu ordinato sacerdote e andò missionario in Kenya, dispensando carità e amore per oltre quarantatrè anni. Per ultimo venne al mondo Attilio (1914-99), che formò famiglia con Ida Severin detta “Ninéta” dei “Rossato”, i due diventarono genitori di sette figli. Così, mentre Isolina e Pietro lasciavano la famiglia per farsi religiosi, nella casa dei Fermi rimanevano Giovanni e Attilio, con i genitori, dividendosi il duro lavoro di contadini. Lavoravano da fittavoli un campo di terra della famiglia Quaglia e sei campi dei Perotto, più uno e mezzo di loro proprietà. Ma i frutti della loro fatica andavano soprattutto ai padroni della terra, che nulla rischiavano, né di morir di fame, né di rompersi la schiena, né il flagello della grandine o la siccità. Non che fossero dei tiranni, perché si aveva bisogno gli uni degli altri, ma questa era la condizione sociale e si facevano rispettare i patti agrari. I Fermi pagavano il dovuto ai Perotto con il raccolto del grano. Se l’anno era stato propizio qualcosa restava anche a loro e potevano permettersi anche un po’ di pane, altrimenti dovevano accontentarsi della solita polenta. Con l’andar delle buone stagioni arrivò un po’ di benessere anche per i Fermi. La stalla cominciò a popolarsi di bestiame, non solo da lavoro ma anche d’allevamento. Si andava periodicamente al Foro Boario di Treviso a vendere qualche mucca, oppure si cedeva a privati servendosi di mediatori. Periodicamente per Sovernigo ne passava uno di Santandrà, ma c’era anche Antonio Vedelago (1888) detto “Crièa”, il quale oltre che mediatore era commerciante di prodotti della terra. Questo figlio di Luigi era sposato con Assunta (1895) figlia di Eugenio Mattarollo. I Crièa risiedevano nel cuore di Villa, in pratica sul sito del parcheggio di Villa “La Quiete”, attuale sede del municipio di Paese dove erano accasate anche le famiglie Adustini e Gamma. La prima metà del XX secolo vide le peggiori infamie percorrere la storia. Il tuonar dei cannoni, lo scempio dei paesi, il silenzio dei morti, il grido delle vedove e degli orfani, le lotte fratricide, la fame e i patimenti d’ogni genere fecero toccare il fondo all’umanità, anche a quella di Paese. Eppure fra tanta jattura si registrarono gesti d’abnegazione e di nobile solidarietà. Questi conflitti ebbero il merito, se così si può dire, di far emergere lo spirito, di far crescere tanti personaggi dalla retta coscienza che riuscirono a togliere dalla melma le comunità in cui vivevano. Qualcuno lo si può riconoscere ripassando la vita delle famiglie descritte in questa pubblicazione. Senza voler stilare una classifica possiamo in ogni modo riconoscere che Giovanni De Rossi ben figurava fra questi. Giovanni De Rossi era persona di fiducia di mons. Ceccato, che lo aveva incaricato di amministrare i beni della parrocchia, cospicui a quel tempo, soprattutto i terreni concessi in affitto, prima che confluissero all’Amministrazione per il Sostentamento del Clero. Periodicamente ne controllava i confini perché non era raro che qualcuno se n’approfittasse, com’era accaduto ai camminamenti del Demanio di cui la campagna era un tempo dotata. Giovanni e Maria divennero genitori dieci volte nell’arco di diciassette anni, dal 1932 al 1949. Per mantenere la famiglia Joanìn aveva fatto un po’ di tutto, dal bracciante agricolo al manovale, dall’operaio all’Appiani di Treviso al muratore. Nel 1949, con la sua valigia di cartone, intraprese la via dell’emigrazione, ma alle navi che solcavano l’oceano per dirigersi verso il mito americano, preferì la carrozza del treno con gli scomodi sedili di legno che lo condusse in Francia, in Lorena, a costruire nuovi altiforni per le famose acciaierie. Ritornò cinque anni dopo con i mezzi sufficienti ad iniziare l’erezione della nuova casa in Via IV Novembre. La portò a termine con le proprie mani nell’arco d’otto anni, sgobbando nel dopolavoro senza risparmiarsi finché, nel 1962, lasciò la casa che l’aveva visto nascere al fratello Attilio, che continuò la tradizione di contadino e d’imbianchino. Sei figli maschi su sette di Giovanni e Maria lasciarono la loro terra per l’avventura migratoria.